UNIONE ITALIANA LAVORATORI METALMECCANICI

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COMUNICATO

Documento della Segreteria Nazionale Uilm sulla riforma del Mercato del Lavoro

Premessa 

Il Decreto Legislativo di riforma del mercato del lavoro, detto anche “legge Biagi”, approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 31 luglio e in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, così come il “Libro Bianco” di cui è la traduzione legislativa, interviene molteplici aspetti del Mercato del Lavoro.

Un giudizio in termini strettamente sindacale sull’insieme di questi interventi quindi non può che essere articolato. Dare un giudizio semplicemente positivo o negativo di questo provvedimento è un esercizio di demagogia, non una valutazione di merito di un sindacato autonomo dagli schieramenti politici.

La Uilm ritiene che nel provvedimento ci siano alcuni punti positivi, parecchi altri negativi e altri ancora che come spesso avviene nella legislazione italiana, resteranno sulla carta senza produrre alcun effetto.

Prima di esaminare sinteticamente i singoli aspetti della riforma è necessaria un’ulteriore precisazione: si sostiene che questa riforma è stata concordata con il “Patto per l’Italia” sottoscritto nel luglio 2002 senza la Cgil. Questo non è esatto: in questo decreto vi sono due punti (su cessione di rami d’azienda e regolamentazione del lavoro a progetto) che sono il frutto dell’azione di Cisl e Uil, che hanno ottenuto su questi argomenti degli importanti cambiamenti nella posizione del Governo.

Ma la responsabilità su tutti gli altri aspetti, positivi, o negativi che siano è del Governo e della Maggioranza. Vi è stata infatti su questa riforma una consultazione delle Parti sociali, ma il Governo nella sua autonomia ha deciso quali modifiche accogliere e quali invece non recepire.

La riforma del collocamento 

Questa riforma prevede – in continuità con i provvedimenti di liberalizzazione delle attività di selezione e ricerca di personale e di collocamento adottati nella precedente legislatura – la possibilità sia per soggetti privati (quindi con l’obiettivo di un profitto) sia per soggetti costituiti dalle Parti sociali (ma senza fine di lucro), sia per le istituzioni scolastiche, di svolgere queste attività.

E’ comunque escluso che questi servizi vengano fatti pagare ai lavoratori, con la sola eccezione di professionalità elevate o per servizi particolari ma solo se previsto dai Contratti nazionali.

Tutti i soggetti che svolgono collocamento dovranno conferire i dati alla “Borsa del lavoro” per aumentare le possibilità di occupazione del lavoratore disoccupato.

Si tratta quindi di interventi che hanno un obiettivo importante: favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e quindi le opportunità di impiego. Ci auguriamo che servano realmente a rendere più dinamico ed efficiente il mercato del lavoro. Ma ci pare anche difficile fare peggio del vecchio collocamento pubblico.

Il lavoro somministrato 

Con “somministrato” si è voluto tradurre i termini inglese “staff leasing”, che significa affitto di un insieme di lavoratori. Per molti versi il lavoro somministrato è una sorta di lavoro interinale svolto da un gruppo di lavoratori: le tutele normative, retributive e sindacali dei lavoratori assunti con questo tipo di contratto sono le medesime dei lavoratori interinali.

V’è tuttavia una rilevante differenza: il rapporto di lavoro somministrato può anche essere a tempo indeterminato e quindi assome più le caratteristiche di un appalto stabile nel tempo.

La legge determina altresì dei casi (pulizie,  attività informatiche, vigilanza, ecc.) nei quali il lavoro somministrato a tempo indeterminato è comunque permesso, mentre rinvia alla contrattazione collettiva per la determinazione di altri casi ammissibili.

La scelta di concedere comunque una serie di casi nei quali, senza contrattazione, si può accedere al lavoro somministrato, non ci soddisfa. Dovremo quindi utilizzare le nostre capacità negoziali per delimitare le discrezionalità aziendali e soprattutto per evitare che parti del ciclo produttivo delle aziende venga strutturalmente affidato a lavoratori “somministrati”. 

Cessione del ramo d’azienda 

La norma recepisce quanto definito nel “Patto per l’Italia”, laddove prevede che il “ramo d’azienda” debba avere una sua autonoma funzionalità e non – come prevedeva l’originaria proposta governativa – fosse sufficiente la definizione del ramo d’azienda da parte del cedente e dell’acquirente, ceduto anche senza mezzi di produzione.

Si evitano perciò possibili abusi e distorsioni da parte delle aziende, che l’iniziale proposta governativa avrebbe consentito. 

Il lavoro intermittente e quello ripartito 

Il lavoro intermittente è un rapporto di lavoro nel quale il lavoratore percepisce un’indennità di disponibilità, per, appunto, essere a disposizione del datore di lavoro che, con un determinato preavviso, lo può chiamare a lavorare.

E’ chiaro questo rapporto di lavoro non può che essere svolto per un periodo limitato della vita e non può essere una prospettiva per chi ha una famiglia da mantenere. Si tratta di un rapporto di lavoro adatto a persone che hanno altre attività o impegni (studio, cura di figli o anziani, ecc.) e che non produrrà un gran numero di occupati.

Offrire opportunità anche a chi non è interessato o non può svolgere un lavoro a tempo pieno, non è sbagliato. La normativa dettata del decreto in questione tuttavia presenta un punto sicuramente negativo e che limiterà i lavoratori impegnati in questa attività, laddove si prevede che in determinati periodi dell’anno (ferie estive, di fine anno e pasquali) e durante il weekend l’indennità di disponibilità viene pagata solo se c’è la chiamata. Questa norma è sbagliata in se perché essere a disposizione durante questi periodi ha più valore ma è sbagliata anche perché con una legge si decidono questioni che sono di competenza delle Parti sociali.

Con il termine lavoro “ripartito” si intende il fatto che due o più lavoratori si impegnano con il datore di lavoro a garantire la copertura di un servizio, autodeterminadosi gli orari e le presenze. Anche in questo caso non si tratta di un rapporto di lavoro che avrà grandissima diffusione, anche se è vero che nelle piccole imprese spesso è già praticato nei fatti.

Anche qui e proprio perché di fatto già informalmente praticato, perché prevedere una norma che in caso di licenziamento o dimissioni di uno dei lavoratori, si estingue il rapporto di lavoro anche dell’altro? 

Il part time 

Il part time – tutti lo affermano – è lo strumento per incrementare il tasso di occupazione. Peccato poi, che quando una lavoratrice o un lavoratore metalmeccanico chiedono di lavorare a tempo parziale deve spesso penare per ottenerlo.

Ma su questo argomento, forse contano molto le differenze del settore di attività: quello che per i lavoratori dell’industria è una soluzione utile a particolari esigenze in altri settori (i servizi) è spesso l’unico lavoro che c’è?

Di fronte a queste differenze, la cosa più opportuna sarebbe quella di definire poche norme di riferimento uguali per tutti e lasciare alla contrattazione il compito di definire quelle di dettaglio. Questa però non è la scelta adottata in questo caso, anzi si è deciso di cambiare per la terza volta in meno di tre anni l’impianto normativo del Part time.

Nel merito poi sono state compiute alcune scelte che aumentano la discrezionalità del datore di lavoro: si pensi al fatto che il diritto di trasformazione a tempo pieno – a parità di mansioni – che il lavoratore a part time aveva in caso di nuove assunzioni è diventato un semplice invito all’azienda a tener conto delle richieste del personale a part time. 

Apprendistato e inserimento professionale 

Cogliendo spunto anche dalle esperienze europee, vengono definite tre tipologie di apprendistato:

1)      l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione riservato per i giovani tra i 15 e i 18 anni, percorso che può dura non più di tre anni e consente l’assolvimento dell’obbligo formativo che giungerà fino a 18 anni;

2)      l’apprendistato professionalizzante che ha grossomodo le caratteristiche dell’attuale apprendistato ma che può essere applicato a persone di età compresa tra 18 e 29 anni e che può durare, in funzione delle professionalità da assumere tra i 2 e i 6 anni;

3)      l’apprendistato per l’acquisizione di un diploma (di scuola media superiore o universitario) o per percorsi di alta formazione che prevede l’acquisizione di elevata qualificazione professionale.

Viene inoltre sostituito il contratto di formazione-lavoro con quello di inserimento. Non si dovrà però trattare di un semplice cambiamento di nome perché da un lato c’è un accorciamento a 18 mesi della durata (prorogabile a 36 mesi per i soli portatori di handicap fisico o mentale) e dall’altro c’è un maggior ruolo del Sindacato di categoria e a livello aziendale nella definizione dei programmi formativi. 

Il lavoro a progetto 

Il mercato del lavoro in questi anni è stato “inquinato” dalla diffusione di alcuni rapporti di lavoro come le “Collaborazioni coordinate e continuative” (in breve Co.co.co). Si tratta di rapporti di lavoro che sono il frutto dell’inventiva degli avvocati e dei consulenti del lavoro e sostanzialmente privi di norme certe di riferimento.

Nelle Co.co.co. il lavoratore non è dipendente, ma un lavoratore autonomo. Perciò chi svolge funzioni di segreteria, o consegna merce o lavora in un supermercato con questo rapporto di lavoro, viene in sostanza trattato come se fosse un professionista, per esempio, il geometra che ci costruisce casa. Senza contare però che il geometra ha una maggiore professionalità e comunque ha una cassa di assistenza e previdenza che offre tutele in caso di malattia, infortunio e vecchiaia, mentre questi lavoratori non hanno diritto a ferie, a malattia e per pensione rischiano di prendere pochi spiccioli.

Inoltre le cattive abitudini si diffondono rapidamente e questo rischiava di destrutturare ulteriormente il mercato del lavoro.

L’intervento di questa riforma, coerentemente con quanto concordato nel “Patto per l’Italia”, trasforma le Co.co.co. in “lavoro a progetto” di cui fissa le caratteristiche contrattuali (deve essere esplicitato nel contratto individuale qual’è la prestazione di lavoro dovuta) e le sanzioni (la trasformazione in rapporto di lavoro dipendente).

Basterà tuttociò a eliminare gli abusi? Non basterà sicuramente ma almeno darà ai lavoratori e a chi li tutela qualche strumento legale in più per difendersi. 

Il lavoro occasionale 

Per trattare di questo tema dobbiamo parlare di lavoro nero: si stima che in Italia ci siano 800 mila persone che svolgono attività lavorativa irregolare presso le famiglie, di questi una parte anche se minoritaria svolgono attività occasionali.

Il “buono” da 7,5 euro e le relative norme sono il tentativo di contrastare questo tipo di  “lavoro “nero” e come non apprezzare questa buona intenzione?

Temiamo però che il meccanismo sia rigido (perché la tariffa oraria è fissata dal Governo), macchinoso e poco conveniente (chi ha interesse a versare contributi previdenziali alla Gestione separata dell’Inps?).

L’applicazione di questa norma – è assai probabile – sarà limitatissima, ma di certo non farà danni. 

Certificazione dei rapporti di lavoro 

Si prevede la messa a regime di una procedura di certificazione dei rapporti di lavoro su base volontaria per ridurre i contenziosi e gli abusi sulla natura del rapporto di lavoro che ha caratteristiche simili alle conciliazioni in sede sindacale.

Trattandosi di una procedura volontaria e che comunque porta il lavoratore a contatto con un’istanza sindacale, il vero rischio è che questa normativa resti “lettera morta”. 

E le altre tutele? 

Aldilà dei problemi applicativi delle singole norme, resta irrisolta la questione delle tutele da offrire ai lavoratori occupato con uno dei molteplici rapporti di lavoro atipici.

Se non si lavora con continuità, quali saranno gli strumenti di sostegno al reddito per i periodi di non lavoro?

Se non si lavora con continuità, quale trattamento previdenziale si otterrà a fine carriera, tanto più che per il futuro si userà il calcolo “contributivo”?

Se non si lavora con continuità, come si potrà fruire della formazione e dell’aggiornamento professionale, indispensabili per non ritrovarsi non adeguati professionalmente?

Se non si lavora con continuità, come si potrà accedere anche a modesti finanziamenti (acquistare un’automobile o gli elettrodomestici)?

Questo tema delle tutele da offrire, è quindi un ulteriore banco di prova dell’iniziativa sindacale che deve convincere Controparti e Governi, della profonda necessità di intervenire. 

I nostri impegni 

Nei prossimi giorni questa normativa sarà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e quindi entrerà in vigore. In molti casi quindi le imprese ma anche i cittadini potranno applicare queste nuove regole, mentre in altri casi occorrerà attendere che le Parti sociali trovino un accordo sui singoli punti loro rinviati.

In questa situazione, cosa deve fare un Sindacato che intenda realmente fare il suo mestiere? L’azione della Uilm sarà quella di richiedere l’applicazione coerente degli aspetti positivi per i lavoratori e di far modificare sul piano legislativo (come del resto prevede la stessa legge delega dopo un primo periodo di applicazione) o con il negoziato con le Controparti quelli che riteniamo negativi.

 

Roma, 1° ottobre 2003

 

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