UNIONE ITALIANA LAVORATORI METALMECCANICI

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Periodico nazionale di informazione della Uilm
ANNO VIII - NUMERO 6/7 ottobre - novembre 2003

RAPPORTO CNEL SUL MERCATO DEL LAVORO 2002
Un anno al rallentatore

Il 2002 ha segnato per il mercato del lavoro italiano il settimo anno consecutivo di crescita ininterrotta dell'occupazione, ma a ritmo decelerato. Il nostro Paese si è mostrato come il più dinamico dell'Unione europea nel campo dell'occupazione e ha continuato ad avvicinarsi agli obiettivi comuni fissati per il 2010. Pur in presenza di un quadro demografico quasi stagnante, cui ha sopperito solo in parte il contributo dei lavoratori extra-comunitari, la crescita dell'occupazione ha superato quella del Pil. Un andamento che ci allontana dallo 'sviluppo senza posti', ma evoca problemi strutturali e rischi di declino: le performance del mercato del lavoro, infatti, non bastano a risolvere i nodi dell'economia italiana, quali i divari territoriali e l'economia sommersa. Inoltre, la produttività è cresciuta meno dell'occupazione, anche perché i nuovi posti sono stati creati in aziende di minori dimensioni o in settori a bassa produttività. L'Italia, pertanto, ha vissuto il 2002 come un momento di passaggio fra un modello di mercato del lavoro già delineato, ma ancora bisognoso di perfezionamenti e di completamenti, e ulteriori misure capaci di elevare la competitività e la coesione del Paese. Nonostante il rallentamento economico, le crisi aziendali e le tensioni sociali, nel 2002 gli occupati sono aumentati di 315.000 unità e i disoccupati sono diminuiti di 104.000, con il risultato che le forze di lavoro sono aumentate di 211.000 unità. Gli occupati sono così arrivati a 21.829.000, contro i 21.500.000 del 2001. Nel 2002, l'incremento è stato dunque dell'1,5%, contro il 2,1% del 2001. L'occupazione è cresciuta più della popolazione, ciò significa che è aumentata la partecipazione al lavoro: oggi ci sono più italiani attivi e tra questi sono aumentati coloro che hanno un impiego. Al tempo stesso, i disoccupati sono scesi a 2.163.000 (-4,6%), il livello minimo toccato dal 1992. L'incremento maggiore è stato quello degli occupati dipendenti, che nel 2002 sono risultati 333.000 in più, mentre gli indipendenti sono stati 18.000 in meno. Per quanto riguarda i settori, confermate le tendenze degli ultimi anni: mentre l'agricoltura ha perso 30.000 posti (-2,7%), l'industria ne ha guadagnati 91.000 (+1,3%) e i servizi ben 254.000 (+1,9%). Un andamento testimoniato dalle ore lavorate (diminuite nell'industria dell'1,2% e aumentate nei servizi dello 0,2%) e dalle ore di cassa integrazione (+28,5% nell'industria e +7,1% nei servizi). Infine, le retribuzioni sono salite del 3,4% nell'industria contro il 5,5% dei servizi. In termini dimensionali, hanno continuato a perdere occupati le grandi imprese (con oltre 500 addetti), che nel complesso danno lavoro al 21% dei dipendenti, le quali nel 2002 hanno perso 34.400 posti, di cui 29.000 nell'industria. Per gli occupati il grado di stabilità, cioè la persistenza nella propria posizione lavorativa a distanza di un anno, risulta del 94,2%: dopo 12 mesi soltanto l'1,5% degli occupati risulta disoccupato mentre il 4,3% è uscito dal mercato. Per i disoccupati, invece, il grado di stabilità è del 52,3%, poiché a un anno di distanza il 20,3% ha trovato un lavoro e il 26,9% è uscito dal mercato. Per gli inattivi, cioè coloro che sono fuori dal mercato pur essendo in età lavorativa (15-65 anni), il grado di stabilità è dell'89,9%; dopo un anno, infatti il 5,4% ha trovato lavoro mentre il 4,7% si è messo a cercarlo ma risulta disoccupato. Donne e lavoro Negli ultimi cinque anni, su un aumento di 1.622.000 posti, due terzi sono andati alle donne (1.044.000, contro 578.000 degli uomini). La disoccupazione, invece, si è ridotta un po' più per gli uomini, fra i quali è calata di 278.000 unità, contro le 247.000 per le donne. Il tasso di disoccupazione è diminuito per entrambi, ma vede le donne ancora in sensibile svantaggio (12,2% contro 7% degli uomini). Nel complesso, dunque, la disoccupazione femminile mostra maggiori difficoltà di riassorbimento e, per mantenere un andamento simile a quella maschile, sono necessarie performance dell'occupazione 3 o 4 volte superiori. Ma non si può dire che l'occupazione femminile si sia precarizzata: tra le donne, infatti, ci sono ben 800 mila impieghi stabili in più, mentre tra gli uomini sono 227 mila in meno. I servizi offrono il triplo dei posti alle donne rispetto all'industria: 27,1% contro 10,9%. Parallelamente, le preferenze per assunzioni maschili sono del 26,3% nei servizi contro il 67,9% per le donne. Nel 36% dei casi, però, un'impresa o ente assumerebbe indifferentemente un uomo o una donna (46,6% nei servizi, 21,2% nell'industria). A livello territoriale, le preferenze per assunzioni femminili passano dal 22,3% del Nordest, 22,8% del Centro, 19,9% nel Nordovest al 17,6% al Sud (ma nel complesso al Nord lavora la metà delle donne e al Sud appena il 27%). E dal 21,4% delle imprese piccole (1-9 dipendenti) al 15,8% di quelle medio grandi (50-249). In generale, le 'single' hanno tassi di occupazione elevatissimi e paragonabili a quelli maschili. Ma ciò che fa scendere l'occupazione non è tanto essere in coppia quanto avere dei figli. Un fenomeno nuovo che appare nelle famiglie è la comparsa di lavoro precario tra gli adulti e la compresenza con la disoccupazione giovanile. Più di tre quarti delle famiglie (76,5%) ha entrambi i coniugi o conviventi occupati in modo stabile, mentre le situazioni di gravità assoluta, con entrambi i componenti disoccupati, sono limitate all'1,9%. Non è finita la tendenza all'abbandono del lavoro in età adulta, seppure compensata dal flusso in entrata: in un anno circa 250 mila donne sono passate dalla condizione di occupate a quella di casalinghe e quasi 350 mila hanno compiuto il percorso inverso. Le donne che lavorano part time sono oggi 1.396.000 (16,9%), contro 476 mila uomini (3,5%). Se tra questi ultimi prevale come motivazione il puro ripiego di fronte all'impossibilità di trovare un lavoro a tempo pieno (43%), per le donne l'incidenza dei motivi personali è del 34,4%, anche se per il 29% è una libera scelta. Per le donne il part time è diffuso soprattutto al Nord, dove sfiora il 20% delle occupate mentre al Sud è fermo al 13%. Se si considera l'orario atipico, cioè che comporta una turnazione o lavoro svolto di sera o di notte, esso non è più un'eccezione: coinvolge infatti il 30,7% degli uomini e il 24,5% delle donne. Aumenta l'accesso delle donne alle qualifiche dirigenziali: nel 2003 le donne dirigenti - includendo il Pubblico impiego che influisce in misura preponderante - sono il 24,2% e la percentuale sale al 37,4% tra i quadri (è del 41% in generale l'incidenza femminile nel lavoro dipendente). Ai livelli impiegatizi, poi, le donne soffrono in generale di un sotto-inquadramento: le impiegate con laurea sono il 18,1%, contro il 12,5% degli uomini. Le donne, quindi, fanno meno carriera ma per farla hanno bisogno di titoli di studio più elevati: è richiesto loro, infatti, un titolo più elevato per raggiungere posizioni più qualificate. In generale, oggi le donne raggiungono livelli di istruzione più elevati rispetto ai loro coetanei maschi. Tra le occupate di 30-39 anni almeno due terzi hanno un diploma, il che vale per meno della metà dei maschi. Quasi il 20% delle occupate giovani ha una laurea mentre tra gli uomini la percentuale è dell'11,6%. Il tasso di attività femminile, inoltre, è fortemente correlato al titolo di studio: è sul mercato del lavoro l'80,3% delle donne laureate, il 66,7% delle diplomate, il 42,9% di quelle che hanno solo la scuola dell'obbligo e il 16,6% di quelle prive di titolo. Ma le donne continuano ad avere un trattamento inferiore a quello maschile, che si valuta intorno al 20-25%. In assenza di differenziali stipendiali (eliminati ormai da tempo), una parte di tale svantaggio è spiegata dalla maggiore concentrazione nei livelli di inquadramento più bassi, il 20% dalla maggiore presenza nei settori meno retribuiti, il 15% dall'impiego in aziende più piccole. Ma il restante 45% della differenza retributiva sussiste a parità di condizioni e si può in parte ricondurre al minore numero di ore lavorate anche per effetto del part time. Il pubblico impiego Il calo dei dipendenti pubblici, registrato negli anni Novanta (-4,9%, che sale al -10% per le amministrazioni centrali, contro la crescita del 2,5% per quelle locali), si arresta nel 1999 e segna una ripresa, anche se il saldo resta negativo (-2,5%). Le maggiori diminuzioni si sono registrate per le Aziende autonome, le Forze armate e gli Enti pubblici non economici, mentre è in forte crescita la Scuola (+13% nel 2000 rispetto al 1993). E' cresciuto il tasso di femminizzazione: un dipendente su due è donna, con punte del 75% nella Scuola e del 60% nella Sanità. Crescono anche, seppure ancora nettamente minoritarie, le donne che occupano posizioni dirigenziali nei ministeri (26%). In tutti i comparti il livello con maggiore presenza è il secondo dal vertice (B per i ministeri, C per gli altri). Modesto il turnover, che conferma una realtà con scarsissimi interscambi di personale: le uscite sono state nel 2000 4 ogni 100 dipendenti a tempo indeterminato, mentre le assunzioni poco meno (3,7%). Quanto al titolo di studio, i dipendenti che non vanno oltre la scuola dell'obbligo sono meno di 1 su 3, mentre quasi 1 su 2 ha un diploma di media superiore, poco meno di 1 su 4 la laurea. Contenuta anche l'incidenza delle nuove leve: i dipendenti che hanno fino a 5 anni di anzianità sono 1 ogni 10, mente il 15% ha oltre 25 anni di anzianità. Il part time riguarda 3 dipendenti ogni 100 e prevale nella Sanità, nei Ministeri, nelle Regioni e Autonomie locali. Per l'84% è scelto da donne. I contratti a tempo determinato interessano solo il 4% del personale, con un'incidenza più alta in Enti di ricerca. Trascurabile la diffusione di contratti di formazione e lavoro, mentre il lavoro temporaneo è usato nel 13,4% delle Amministrazioni con un'incidenza dello 0,1% sull'intero personale. Più della metà delle Amministrazioni fa ricorso alle co.co.co, con un'incidenza complessiva dell'1,5%. Nel complesso, tutte le forme di lavoro non standard riguardano 6 lavoratori su 100, escluso il part time. Il lavoro nelle professioni Nell'ultimo decennio, la dinamica dell'occupazione indipendente è stata più modesta rispetto a quella del lavoro dipendente: ha oscillato intorno ai 5 milioni 870 mila unità, per poi salire nel 1999-2001 a 6 milioni, scontando nel 2002 un leggero arretramento. Mentre i liberi professionisti e gli imprenditori sono costantemente aumentati, dal 16,6% del 1993 al 28,5% del 2002, gli autonomi (commercianti e artigiani) sono diminuiti, pur rappresentando ancora il segmento maggioritario del lavoro indipendente. Nel complesso, fra il 1995 e il 2002, i liberi professionisti sono aumentati di 380 mila unità (20% della crescita occupazionale osservata nel periodo), passando dal 12,2% al 18,2% sul totale del lavoro indipendente. Oggi c'è una donna ogni quattro professionisti, mentre a metà anni Novanta il rapporto era una a cinque. Si è accentuata la connotazione adulta dei liberi professionisti: la quota sotto i 30 anni è scesa dal 14% del 1993 al 10% attuale, mentre gli ultracinquantenni sono rimasti stabili intorno al 26% e due terzi stanno nelle fasce intermedie (30-49 anni). Prevalgono le professioni intellettuali (49%), seguite da quelle tecniche (37%). Oltre la metà, inoltre, opera nei servizi alle imprese. Un quarto di tutti i liberi professionisti risiede in Lombardia, seguita dal Lazio, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna e Toscana. Gli studi professionali con dipendenti nel 2002 sono circa 80 mila e danno lavoro a 200 mila dipendenti. I tirocinanti-praticanti sono stimati in circa 600 mila. Se si considera il numero di iscritti a gestioni pensionistiche, nel 2000 erano 750 mila (+8,2% rispetto al 1998) e tra questi i medici rappresentano l'aggregato più consistente (300 mila). Le donne rappresentano il 30% ma arrivano al 60% tra i farmacisti. A questi si devono aggiungere i professionisti-collaboratori iscritti alle gestioni separate, nel 2000 circa 210 mila. Complessivamente, gli iscritti agli Ordini sono 1.600.000. Per quanto riguarda le associazioni professionali non riconosciute, sono 134 quelle sinora censite nella banca dati del Cnel. Di queste, il 13% è fiorito negli ultimi tre anni e due terzi negli anni Novanta. Tra i settori di attività, un peso rilevante spetta ai servizi alle imprese (33%), socio-sanitari (21%), arti-scienze-tecniche (24%). Secondo i dati disponibili, sono soprattutto piccole associazioni: più della metà, infatti, ha meno di 500 iscritti. Per l'iscrizione, i due terzi richiedono il possesso di un preciso titolo di studio e il 43% sottopone gli aspiranti a un esame di ammissione.

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