UNIONE ITALIANA LAVORATORI METALMECCANICI

Corso Trieste, 36 - 00198 Roma - Tel. 06.852.622.01 - 06.852.622.02
Fax 06.852.622.03 - E-mail uilm@uil.it

 

 
Periodico nazionale di informazione della Uilm
ANNO IX - 4-5  aprile/maggio 2004

La riforma del rapporto di lavoro a tempo determinato 

Il contratto di lavoro a tempo determinato è un contratto di lavoro subordinato caratterizzato dall'apposizione del termine, con cui le parti preventivamente fissano la scadenza del rapporto lavorativo. La sua disciplina è stata profondamente ridisegnata dal decreto legislativo del 6 settembre 2001, n° 368, che si muove nella direzione di una progressiva liberalizzazione del mercato del lavoro. Si è passati, in particolare, dal sistema "dei casi tassativamente autorizzati dalla legge e delle quote stabilite in sede di contrattazione collettiva", al sistema delle "ragioni aziendali". La nuova normativa prevede, difatti, come condizione essenziale, che la stipulazione del contratto a termine sia giustificata dalla sussistenza di "ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo" e che dette ragioni siano specificate, per iscritto, nell'atto di assunzione. Qualora le ragioni fossero carenti o non fossero riportate nel testo di assunzione, la conseguenza sarebbe la conversione, ad opera del giudice, del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La legge statuisce, inoltre, alcuni divieti inderogabili, sancendo che il lavoro a termine non possa essere utilizzato né per sostituire lavoratori in sciopero, né da parte di aziende che, nei sei mesi precedenti, abbiano proceduto a licenziamenti collettivi o a sospensione di rapporti, relativamente alle mansioni a cui erano adibiti i lavoratori licenziati o posti in cassa integrazione. All'articolo 10 si trova poi un rinvio alla contrattazione collettiva, che, in determinate fattispecie, potrebbe prevedere limiti quantitativi di utilizzazione dell'istituto del contratto a tempo determinato. Abbiamo adoperato il condizionale, poiché sarà un compito arduo costringere le imprese a negoziare in questa materia: se prima la contrattazione collettiva risultava, infatti, un percorso quasi obbligato per le aziende, oggi gli imprenditori potrebbero guardare ad essa come ad una scomoda eventualità.
La sanzione della conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato è prevista, oltre che nella fattispecie precedentemente esposta, anche in alcuni casi, in cui il protrarsi del rapporto dimostra un utilizzo improprio del contratto di lavoro a tempo determinato. Si tratta, in particolare, della normativa dettata in tema di proroga, prosecuzione del rapporto e successione dei contratti, interamente finalizzata ad impedire che l'istituto venga arbitrariamente adoperato, nei rapporti caratterizzati dalla continuità, in luogo del lavoro a tempo indeterminato.
In tema di proroga, la legge stabilisce che questa si possa avere "una sola volta, a condizione che sia richiesta da ragioni obiettive e che si riferisca alla stessa attività lavorativa precedentemente svolta dal lavoratore, solo se la durata iniziale del rapporto sia inferiore a tre anni; in ogni caso la durata complessiva del rapporto non può superare lo stesso termine di tre anni". Analoghe considerazioni valgono per la prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro, oltre il ventesimo giorno successivo alla scadenza del contratto. Anche qui il rapporto di lavoro diverrà a tempo indeterminato. Lo stesso dicasi per la formale riassunzione, nel periodo di venti giorni, del lavoratore a termine (caso della c.d. successione dei contratti).
Per quanto concerne la disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato, la norma fondamentale è la c.d. norma "antidiscriminatoria", che stabilisce parità di trattamento fra il lavoratore a termine ed il lavoratore a tempo indeterminato. La legge dice esplicitamente che al lavoratore a termine spetta "ogni trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori con contratti a tempo indeterminato". L'unico limite a quanto appena affermato è costituito dall'esclusione degli istituti di anzianità e dei super minimi individuali, perché oggettivamente incompatibili con il lavoro a tempo determinato.
Il decreto legislativo, in ogni caso, è stato un atto "dovuto", nella misura in cui ha dato attuazione alla direttiva CE 1999/70, che a sua volta recepisce un accordo intervenuto fra tra il Sindacato europeo e le controparti padronali. Per la verità, la direttiva CE mostra alcune differenze rispetto al decreto legislativo, che pure - abbiamo detto - ne costituisce attuazione. In ogni caso, i contenuti più marcatamente garantisti della direttiva europea dovrebbero sovvenire in nostro aiuto, per interpretare il d. lgs. 368/2001 in senso favorevole al lavoratore. Due premesse sono, però, necessarie ad un ragionamento siffatto.
Innanzitutto, secondo noi, ad intaccare i diritti dei lavoratori a termine, è non solo e non tanto la lettera della legge, quanto le ardite letture che comunemente se ne danno. Non sfugga, inoltre, che le interpretazioni giuridiche seguono per lo più il comune sentire della società, rispecchiano le tendenze politiche e, nel caso del diritto del lavoro, il concreto atteggiarsi dei rapporti di forza fra le classi sociali.
La seconda premessa, che sentiamo di dover svolgere, è direttamente legata alla precedente: la riforma legislativa è piuttosto recente e, quindi, ancora non si è formata una giurisprudenza consolidata al riguardo. Acquisterà, dunque, una straordinaria importanza la capacità dei sindacati di imporre una lettura della legge conforme alle aspettative dei lavoratori.
Ne deriva che il nostro compito si presenta oggi tanto arduo, quanto importante e consiste soprattutto nel ribadire le esigenze di tutela dei lavoratori, che tradizionalmente sono poste a base del nostro ordinamento del lavoro, anche nel campo nuovo dei lavori c.d. flessibili.

Gianluca Ficco

 

torna all'homepage